di Dario Forti
Non è la prima volta che pensieri come questi mi attraversano. Forse oggi è per il fatto che, nel corso di una sola giornata, se ne sono andati Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni. Di quest’ultimo Martin Scorsese ha scritto: “…un architetto della nostra ambigua realtà.“
Che significa la morte di un maestro? Cosa accade quando muore un maestro? E soprattutto quando muore il tuo maestro?
Come dice Saul Bellow in Ravelstein:
“…lo vedevo come il mio maestro. Be’, era il suo mestiere. Ravelstein era un educatore.”
Come tanti, penso di aver avuto più di un maestro. Ma un certo giorno ho provato la chiara sensazione che un maestro fosse morto a me.
In momenti diversi della vita, nel corso della mia crescita personale e professionale, ho certo pensato di avere avuto dei maestri. Alcuni di loro oggi sono morti, altri non ancora, alcuni erano già morti quando li ho conosciuti attraverso i loro scritti.
Forse non è questo l’aspetto più importante della questione. È che quelli io non li ho mai realmente conosciuti personalmente. Soprattutto, nessuno di loro è stato nemmeno sfiorato dall’idea di essermi maestro. Neanche Gino Pagliarani lo pensava, però. Quando qualcuno di noi, in occasione di un incontro, si rivolgeva a lui chiamandolo “maestro”, il più delle volte rispondeva con espressioni irriferibili. Allora ci si restava male, certo, ma la convinzione che lui fosse comunque il proprio maestro era più forte di una dura ma fugace frustrazione.
Perché? Perché questo in fondo è stato il senso della maestria di Gino. Un maestro che non si pone come tale, che non vuole viversi ed essere vissuto come tale, soprattutto agli occhi dei terzi (coloro che osservano – e giudicano – un maestro alle prese con i suoi allievi), che rifugge anzi dai segni più odiosamente visibili della relazione maestro-allievo che siamo, ahi noi, abituati a riconoscere nelle figure (tutto sommato socialmente accettate) dell’assistente, del portaborse, del “negro” – l’idea che potesse impadronirsi di una pagina scritta da altri è così terribilmente lontana dalla comprensione di chi era Gino Pagliarani! Sono evidenti i motivi affettivi, culturali, etici, politici, per cui Gino Pagliarani rifuggiva da simili segni della condizione di maestro.
Ma forse occorre andare ancora un po’ più a fondo. Che maestro è stato, è ancora Gino Pagliarani?
Solo un maestro che non ritiene di esserlo, per modestia, per sottovalutazione – anche difensiva – della propria importanza nella formazione del pensiero e della capacità di agire dei suoi allievi?
Oppure un maestro che non vuole esserlo? Perché ritiene che non ci siano davvero maestri, che la fonte dell’apprendimento sia interna, che non si possa, o debba, essere maestri, senza rischiare di tradire il puer che l’allievo ha in sé e che deve potersi formare senza che prevalga l’adesione e l’identificazione con l’altro, il maestro appunto?
E che, come il genitore, anche il maestro debba rispetto al figlio-allievo.
Come ha scritto alcuni anni fa (in un passo che con Pino Varchetta abbiamo scelto come una delle “tracce di ricerca” lungo il pensiero di Gino Pagliarani”):
“La norma corrente, secondo cui i figli devono rispettare i genitori e i genitori amare i figli, andrebbe capovolta: sono invece i genitori che devono rispettare i figli …”: così Rozanov tanto tempo fa. Un monito sempre più attuale. Però io ritengo che vada completato. Il rispetto di cui si parla non deve limitarsi ai figli esterni. Rispetto, attenzione, riconoscimento, valorizzazione devono riguardare anche il figlio interno, quello che ci portiamo dentro, a qualsiasi età.
Mi sono chiesto che maestro è Gino Pagliarani. Non lo so, non ho risposte. Giuro di non averlo mai capito, di non averlo mai saputo. In realtà, poi, una domanda così importante non gliel’ho neanche mai rivolta. E ancora non so perché. Di fatto questa convinzione (che lui fosse il mio maestro) me la sono tenuta sempre per me.
Non è vero, l’ho detta a un sacco di gente. Soprattutto ai giovani che venivano da me – è successo a molti di noi – ad esempio per scrivere una tesi di laurea sulla psicosocioanalisi – e il più delle volte era Gino a indirizzarmeli – oppure agli allievi della scuola di psicosocioanalisi di Ariele che mi vengono affidati nella veste di consigliere, a loro io parlo del mio maestro.
Gli ho sempre detto, e continuo a dire loro, di come Gino faceva una determinata cosa, di come la diceva, di come reagiva a determinate situazioni, di solito quelle in cui le sue reazioni esprimevano, e non sempre in modo garbato, la sua unicità, fatta di genialità, d’indipendenza di giudizio, di intuito relazionale.
Beh, mentre sviluppo queste riflessioni, mi rendo conto che sto assumendo una parte, di riprodurre un tipo di relazione di cui la storia della cultura è stata in ogni epoca ricchissima – da Platone quando parla di Socrate, a Bonaventura quando racconta di Francesco…
Oddio, forse è il caso di riportare il tutto a proporzioni più ordinarie, e soprattutto di ridimensionarmi – certo che pensarmi come Platone nei riguardi di Socrate consente delle riflessioni controtransferali interessanti… – ridimensionando i termini, dicevo, allora preferisco proporre un paragone minore e più vicino, se non altro da un punto di vista cronologico.
Ricordo allora come Saul Bellow descrive Abe Ravelstein, un personaggio di fantasia certo, ma molto facilmente riconducibile a tante figure di eroi della cultura americana, ebraica e non – io per esempio, inizialmente, mi sono figurato Ravelstein con i tratti di Norman Mailer, almeno del Mailer più recente, quello che compare ad esempio come testimone-narratore in When We Were Kings, quel bellissimo film-documentario su Mohammed Alì – Cassius Clay che riconquista il titolo dei massimi a Kinshasa, Zaire.
Ma quando Bellow si è addentrato nel descrivere il suo personaggio, ho avvertito uno slittamento di senso, che ha fatto di quella lettura qualcosa di più, su un piano tutto mio personale, dell’ennesimo felice incontro con i personaggi di Bellow.
Non posso non citare questo squarcio addirittura irriverente:
“Le mogli dei professori sapevano che, quando Ravelstein veniva a pranzo, ci sarebbe stato, dopo, molto da pulire: le macchie, gli schizzi, le briciole, la sporcizia del suo tovagliolo, i pezzi di carta sparsi sotto il tavolo, il vino spruzzato quando rideva di una spiritosaggine; piatti scartati dopo un assaggio e deposti sgarbatamente sul pavimento. Una padrona di casa esperta gli avrebbe steso dei giornali sotto la sedia. Lui non ci avrebbe badato. Non prestava molta attenzione a queste cose. Ognuno di noi, naturalmente ha i suoi sistemi per venire a sapere quello che succede. Abe sapeva: sapeva cosa portare alla luce della coscienza e cosa scartare. Criticare le sue maniere a tavola sarebbe stato come ammettere la propria piccineria.”
Oppure:
“Abe amava i pettegolezzi, ma l’interesse che nutriva per la gente sarebbe difficile da descrivere. Aveva uno strano intuito che non era tanto analisi quanto divinazione. Lo si avvertiva quando parlava della personalità, o cercava di scoprirla.”
O ancora, e qui la lettura riunisce sentimenti diversi, in cui il piacere dell’identificazione convive con un vissuto depressivo un po’ perturbante:
“Non era un programma accademico, il suo, era a ruota libera. E tutta la faccenda funzionava: nel complesso, il programma era efficace. Nessuno dei suoi studenti diventò, come ampiezza d’interessi, un Ravelstein. Ma per la maggior parte erano intelligentissimi e di una soddisfacente originalità. Ravelstein li voleva originali. Amava gli studenti più eccentrici: non potevano mai essere abbastanza eccentrici per soddisfarlo. Ma ovviamente dovevano conoscere le basi, e conoscerle diabolicamente bene”.
E da lì il pensiero mi è andato al senso che per Saul Bellow ha avuto il parlare di Ravelstein, e a quello che ha oggi per me il parlare di Gino:
“Mi rendevo conto dell’influenza di Ravelstein quando descrivevo una scena del genere. Tanto varrebbe ammettere che era spesso presente nei fatti quotidiani. Questo, per la forza della sua personalità. Ma anche perché la sua vita aveva una struttura intimamente più potente della mia, e io ero diventato dipendente dalla sua capacità di classificare le esperienze. Può darsi che lui volesse durare. E anche lui, da parte sua, aveva bisogno di me. Inoltre, molta gente vuole disfarsi dei morti. Io, al contrario, tendo a restarci attaccato. Il mio persistente sospetto – ormai dovrebbe essere chiaro – è che non se ne siano andati per sempre. Ravelstein stesso avrebbe liquidato queste idee come infantili. Be’, forse lo sono. Ma io non difendo una causa, mi limito a riportare i fatti. Lo so che ad accogliere queste fantasie si perde rispettabilità intellettuale. Mi adeguo anch’io, vedete, all’opinione corrente. Ma forse ci sono delle spiegazioni molto semplici alla persistenza di Ravelstein nella mia vita quotidiana. Quando morì, cominciai a capire che avevo preso l’abitudine di dirgli cos’era successo dall’ultima volta che ci eravamo visti.”
È per questo che sottoscrivo completamente anche la frase con cui Bellow conclude il romanzo:
“Non è facile rinunciare a una persona come Ravelstein e lasciare che la morte se la porti via.”